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I segreti dei pazienti difficili

La presa in carico parallela, familiare e individuale, in équipe

I segreti dei pazienti difficili sono il tema della mia riflessione, che nasce dal riconoscimento di un fenomeno comunissimo, diffusissimo: pazienti giovani, adolescenti, giovani adulti, anche trentenni, di tutte le età, conservano dei segreti sulle loro esperienze traumatiche, esperienze altamente stressanti, per tantissimi anni, per tantissimo tempo.

Voglio partire da un caso che mi ha molto colpito: un ragazzo di 28 anni che sta male da quando aveva 18 anni. Quando lo incontro è già cronico, con una grave depressione, non riesce a fare niente, abusa di cannabis. Ed è in una situazione di stallo, nonostante viva in una famiglia evoluta, abbia fatto una prima terapie individuale, e poi una seconda. Solo dopo un anno di terapia familiare e individuale, in équipe con Stefano Cirillo, durante una seduta familiare il ragazzo svelerà la sua esperienza di abuso sessuale da bambino, a otto anni, evento segreto che gli ha rovinato la vita.

Perché, mi sono chiesto, ragazzi che hanno fatto lunghi anni di terapia individuale, con terapeuti competenti, non ne hanno tratto nessun beneficio e continuano a stare malissimo?

I legami spezzati

Il tema della fiducia e della sfiducia, in queste patologie che sono poi le patologie peggiori, le più difficili da trattare, è centrale.

Il fenomeno che volevo sottolineare e che mi colpisce, in questo caso come in tantissimi altri, è che questo ragazzo non riesce ad avere fiducia, in particolare nei suoi genitori. Non riesce a fidarsi neanche dei terapeuti perché il transfert in questi casi è evidente. La sfiducia negli adulti è così totale che non riesce a fidarsi di nessuno.

Questo è il primo concetto: molte gravi psicopatologie sono collegate alla rottura della fiducia nei genitori. È frequente che questo fenomeno prenda corpo in epoche lontane: troviamo che questi ragazzi hanno avuto vari tipi di crisi di fiducia, per paura delle reazioni violente di un padre, o per un’inversione dei ruoli con una mamma vissuta come troppo fragile.

É il tema che in gergo definiamo della riorganizzazione autarchica, (Selvini et al 2022) cioè molti di questi ragazzi che stanno malissimo, che rischiano il suicidio, che rischiano di sprofondare nel delirio e nella psicosi, hanno alle spalle e sulle spalle questa storia di grave sfiducia.

E qui segnalo un errore che purtroppo molti professionisti commettono: ragazzi che già hanno il problema di un eccesso di autarchia, che hanno rotto i legami col mondo e con i loro genitori, non traggono vantaggio da terapie che favoriscono la cosiddetta autonomizzazione. Anzi questo percorso può rivelarsi gravemente dannoso per la loro salute psichica.

Incontriamo sicuramente ragazzi che hanno un tema di sottomissione e di dipendenza rispetto ai loro genitori e dove la strategia della individuazione separazione è perfettamente legittima, ma oggi voglio parlare dei ragazzi che vivono questi legami spezzati.

Attivare la famiglia per ricostruire la fiducia

Ho seguito insieme ad una collega psichiatra, che lavora presso un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), un altro caso: la collega incontra una ragazza che è stata appena ricoverata perché poco prima si è tagliata nello studio della sua psicoterapeuta.

Anche qui c’è una lunga psicoterapia. Questa ragazza racconterà poi molto bene come a partire dalla preadolescenza abbia cominciato a stare malissimo, ma anche a tenere segreto il suo malessere arrivando addirittura ad andare nascostamente da una psicologa, senza che i suoi genitori lo sapessero e facendo dei lavoretti per poter pagare la sua psicologa. Un caso molto chiaro di sfiducia totale nei suoi genitori.

Il lavoro della collega è dunque teso a convincere la ragazza che è assolutamente fondamentale incontrare i suoi genitori, perché possano rendersi conto della sua sofferenza psichica, della gravità della situazione, del rischio anche di morte che la figlia sta correndo.

Di contro questi genitori che hanno la figlia ricoverata in psichiatria non chiedono di parlare con lo psichiatra. È interessante anche la bilateralità di questa rottura del rapporto: la ragazza tiene i genitori fuori dalla sua vita, e i genitori si tengono fuori dalla vita della ragazza, in una maniera che potremmo definire tossica.

Finalmente la psichiatra riesce a ottenere il consenso, convoca i genitori che minimizzano l’episodio: “Sì sappiamo che sta attraversando l'adolescenza, l'adolescenza è un periodo difficile, ma adesso gli passa tutto”.

La psichiatra farà un lavoro importante per combattere questa incredibile dissociazione dei genitori, per mostrare loro che non si tratta di una “normale” crisi adolescenziale, ma di una sofferenza profonda.

Inizia un nuovo pezzo di lavoro con i familiari sulla dissociazione della sofferenza: i genitori hanno vissuto storie che li hanno portati a un funzionamento dissociativo della sofferenza, che viene spostato sulla sofferenza della loro figlia. La figlia sta male da tantissimi anni, ma loro non hanno potuto vedere questa sofferenza.

Il lavoro della collega è teso a combattere per evitare questo taglio emotivo, a contrastare il fatto che la ragazza voglia rompere il rapporto con i suoi genitori e anche con i suoi fratelli.

I genitori si convincono che la figlia è molto grave, non basta solo la terapia farmacologica, non basta ricominciare una psicoterapia individuale, bisogna fare qualcosa anche come famiglia. Nei colloqui con i genitori si scopre che anche i due fratelli hanno aspetti di sofferenza molto rilevanti.

La collega psichiatra che è anche una bravissima psicoterapeuta comincia a instaurare una relazione, un'alleanza terapeutica intensa con la ragazza, contemporaneamente riesce a relazionarsi, a divenire molto costruttivamente collaborativa con i genitori e quindi riesce a mandarli da me con l'idea che insieme in co-conduzione io e lei faremo, parallelamente alla presa in carico psichiatrica, un lavoro di terapia familiare.

La ragazza si rifiuta inizialmente di partecipare alla terapia familiare, io faccio un primo colloquio con i genitori, poi convoco i due fratelli con i genitori e a questo punto riusciamo a convocare anche la ragazza che parteciperà, non tanto volentieri, anzi piuttosto malvolentieri all'inizio, però confortata dalla presenza della sua psichiatra a cui si è molto legata.

La terapia familiare in parallelo alla terapia individuale riescono a riattivare un legame di attaccamento di una ragazza che lo aveva interrotto totalmente. È stato un lavoro importante, con un grande risultato dal punto di vista del benessere di questa ragazza.

I genitori possono riparare ai loro errori

Il lavoro familiare-individuale-individuale-familiare ha lo scopo di ottenere che ai genitori sia data la possibilità di riparare ai propri errori, di capire dove hanno sbagliato, di cercare un nuovo modo di rapportarsi con la loro figlia, di riguadagnare la sua fiducia. Contemporaneamente lavoriamo con la ragazza perché anche lei possa dare ai genitori una seconda possibilità.

Molti ragazzi sono pazienti disorganizzati che hanno costruito una maschera autarchica; esprimono questo disprezzo, hanno rotto con i genitori, però dentro hanno un profondo e insoddisfatto bisogno di appartenenza. Se si riesce a lavorarci sopra e a ricostruire un legame di appartenenza, anche in casi gravissimi come questo, si possono avere dei risultati molto molto importanti.

Molte terapie individuali invece falliscono perché involontariamente rinforzano nei pazienti il dolore di essere ignorati o abbandonati dai genitori. E una ragazza che ha una rottura così totale con i propri genitori, con i propri familiari, non può stare bene. Se una ragazza odia i suoi genitori, odia i suoi fratelli, è inevitabile che odierà anche sé stessa.

Naturalmente è una valutazione che dobbiamo fare in itinere, naturalmente esistono anche dei casi in cui i genitori non si presentano o quando si presentano ci sembrano totalmente fuori, totalmente non risorsa. Purtroppo esiste anche una percentuale di casi, non piccola tra l'altro, dove la rottura dell'attaccamento ha delle basi fondate e non può essere riparata. Il rischio della psicoterapia, in tutte le sue versioni e modelli, è sempre quello di riproporre dei protocolli che sono uguali per tutti i casi e questo non funziona.

Ad esempio, i genitori sono recuperabili o sono irrecuperabili? è una diagnosi differenziale fondamentale, non si può fare sempre la stessa cosa, cercare sempre di ricucire i legami del paziente oppure cercare sempre di staccare il paziente, c'è una complessità della realtà che dobbiamo affrontare.

Partiamo però dal fatto che perdere questa risorsa è veramente una cosa molto molto negativa; quindi, noi dobbiamo provarci in tutti i casi più gravi, in tutte le psicopatologie più gravi, dobbiamo scommettere sul fatto che almeno una parte del funzionamento genitoriale potrebbe essere recuperabile.

Se scommettiamo sul fatto che i genitori sono un disastro, vinceremo sempre la scommessa, perché è facile, troppo facile che i genitori di pazienti gravi si demoralizzino e si sentano completamente inutili rispetto alla situazione. Invece la nostra scommessa è quella di rendere i genitori e anche i fratelli delle risorse positive per i loro figli, per i loro fratelli.

“Come farlo” è un tema importante.

Noi stiamo sperimentando questo modello di terapia parallela in cui si lavora in équipe. Un membro dell'équipe entra maggiormente nel ruolo di terapeuta individuale, un altro membro dell'équipe è il riferimento familiare, genitoriale. Lavorare in équipe, fare sedute familiare in co-conduzione con due terapeuti, si è dimostrato in tutti questi anni un modello molto forte e molto efficace. Però non dobbiamo avere delle rigidità, magari a volte si può lavorare solo con un pezzo della famiglia, si comincia con i genitori, poi magari arrivano i fratelli, però lo spirito è quello di coinvolgere i genitori e i fratelli in un percorso in cui anche loro riflettano sulle cause del malessere familiare che “ha contagiato” il figlio.

Parlando di pazienti gravi, e pazienti gravi vuol dire sostanzialmente pazienti non richiedenti, la risorsa famiglia è ancora più importante. Anche per i pazienti che sono richiedenti, che hanno risorse e capacità di chiedere aiuto, bisogna riuscire a trovare in modo creativo gli allargamenti, come e perché invitare, anche uno alla volta nel setting individuale, i familiari significativi.

Il lavoro in équipe sia individuale che familiare

Per chiudere ritornando al tema dei segreti, dei segreti di pazienti gravi, il tema di romperli, di scoprirli, è un tema molto molto delicato perché sicuramente avranno avuto, purtroppo, delle buone ragioni per non fidarsi. E torniamo al tema della sfiducia da cui sono partito: se questa sfiducia c'è purtroppo è anche possibile che abbia delle buonissime ragioni e quindi se non siamo sicuri che i genitori siano davvero cambiati e siano diventati in grado di ascoltare, anche lo svelamento può purtroppo rivelarsi pericoloso.

La forza del modello che abbiamo sviluppato in questi anni, basato sulla diagnosi di personalità, basato sulla diagnosi d'attaccamento, è proprio quello di fare un lavoro sia individuale che familiare. Lo spirito è questo: a livello di diagnosi, fare sia diagnosi individuali che diagnosi sistemiche.

E a livello terapeutico variare le convocazioni, i formati, fare sia sedute individuali che sedute familiari, sedute individuali non necessariamente solo con il paziente designato, ma anche con altri membri della famiglia.

Questo spirito di lavoro, in équipe, familiare e individuale, è lo spirito che stiamo sperimentando in questi anni e che ci sembra assolutamente efficace.

L'autore: Matteo Selvini

Le esperienze che ho condiviso con voi si sono sviluppate in un percorso professionale che potrei definire “privilegiato”: sono figlio di una psichiatra e psicoterapeuta, Mara Selvini Palazzoli, diventata molto famosa, nel 1963, con il libro L’anoressia mentale e poi nel 1975 con un nuovo libro Paradosso e controparadosso, veri best seller tradotti in molte lingue. L’ entusiasmo di mia madre per la cura della sofferenza delle persone e per la psicoterapia mi ha coinvolto e sono diventato io stesso psicologo e poi psicoterapeuta (Selvini 2004).

Negli anni 80, dopo una fase professionale nei servizi psichiatrici territoriali e in altri centri, ho iniziato la collaborazione con mia madre, in una équipe formata da Mara Selvini, Anna Maria Sorrentino, Stefano Cirillo, e da me, il più giovane. Noi tre siamo diventati come un gruppo di fratelli con una mamma adottiva e nel 1993 abbiamo fondato la Scuola di psicoterapia. Ho quindi potuto seguire lo sviluppo del modello sistemico interpretato da Mara Selvini Palazzoli sin dagli anni ’80.

Una idea fondativa del modello era il lavoro di équipe (Selvini, Selvini Palazzoli 1989) con due terapeuti in seduta con la famiglia e altri due oltre lo specchio unidirezionale, in osservazione. L’area di intervento erano ancora pazienti anoressiche, e poi soprattutto pazienti psicotici e pazienti con gravi disturbi della personalità. (Selvini Palazzoli et al 1988, Selvini Palazzoli et al 1998)

Dagli anni 90, ho lavorato sempre con intere famiglie e lì ho cominciato a raccogliere tanti segreti, che erano però sostanzialmente i segreti dei genitori (Selvini 1994). Poi nelle terapie abbiamo cominciato a vedere spesso anche i genitori da soli, non sempre tutta la famiglia, a modificare le convocazioni. Siamo così arrivati a quello che è il nostro modello attuale: l'intervento più efficace con i pazienti gravi è un intervento dove c'è una parte di lavoro individuale, di alleanza individuale con il paziente, che deve essere integrata e combinata con un lavoro con la famiglia.

Io sono passato dalla terapia familiare “pura”, solo con le famiglie, alla terapia individuale: sono stato a lungo il referente per i genitori, per diventare il referente per il paziente (Cirillo et al 2016).

Note dal Webinar del 4 giugno 2025 per FCP - Formazione Continua in Psicologia
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